di Mattia Fadda, Senior consultant di Public Affairs Advisors
Pare che Roberto Cingolani non l’abbia presa bene e abbia vissuto come un’imboscata il blitz guidato da alcuni deputati nelle Commissioni riunite Ambiente e Affari costituzionali su un emendamento M5s approvato anche coi voti del PD al DDL di conversione del decreto-legge “Recovery” in materia di governance del PNRR e semplificazioni. Emendamento su cui il Governo aveva espresso parere contrario.
Secondo Monica Guerzoni del Corriere della Sera che ha dato per prima la notizia, Cingolani sarebbe determinato a «respingere lo scontro ideologico e i veti» o, addirittura, a lasciare il Governo dato che l’attuazione del piano sarebbe così a rischio. Secondo alcuni osservatori l’episodio sarebbe il redde rationem fra i nostalgici di Conte in entrambi i partiti Vs. “draghiani” nelle stesse fazioni, con questi ultimi ad aver avuto la peggio in questa occasione. Ma non è così o, almeno, non solo. Lo scontro dentro la maggioranza è meno tattico e più politico di quanto ad un primo sguardo appaia. Si confrontano, infatti, due visioni di transizione: quella degli slogan e dei veti e quella degli atti concreti basati sui fatti, capace di conciliare i target ambientali con le necessità economiche e sociali del Paese. Da una parte i conservatori ambientalisti (ideologici ed estetici) e dall’altra gli ambientalisti “sviluppisti” non ideologici guidati da Roberto Cingolani (e per questo avversato da buona parte dei pentastellati).
Lo scontro non sarà certamente l’ultimo ma non era neanche il primo. Dario Franceschini (il capo della corrente PD più sensibile alla logica della conservazione territoriale, ovvero quella che considera l’art. 9 della Carta come un simulacro) aveva già annacquato in partenza il decreto Recovery rendendo meno sfumato il ruolo delle soprintendenze rispetto alla bozza vergata dal MiTE e da Cingolani. Ora il secondo round in occasione della conversione in legge del decreto. Vinto anche stavolta da Franceschini.
Ora gli “sviluppisti” dovranno in qualche modo rispondere se non vogliono perdere in partenza la sfida politico-culturale della transizione ecologica italiana (e farsi addirittura accompagnare fuori dal governo). Più politica e meno tattica, dicevamo, più atti e meno veti. Roberto Cingolani e Mario Draghi possono portare prima dell’autunno in Consiglio dei ministri l’approvazione di decine di progetti di impianti rinnovabili (fotovoltaici ed eolici) che hanno già avuto il bollino verde di compatibilità ambientale e attendono solo la pronuncia di Palazzo Chigi e dunque il voto dei ministri in seguito ad un conflitto istituzionale (in genere il Ministero della Cultura ricorre contro la Regione o il Ministero dell’ambiente che hanno approvato un progetto).
La cosa di cui non si è parlato abbastanza è, infatti, la moratoria implicita e silenziosa sugli impianti di energia rinnovabile che le soprintendenze per i beni culturali hanno imposto la Paese per mezzo del Ministero della Cultura (MiC). A titolo esemplificativo basti citare che, con l’esclusione dei progetti di repowering, a livello di comitato VIA il Ministero nel 100% dei pareri che ha fornito dal 2017 ad oggi (data della sua istituzione) si è sempre dichiarato contrario alla realizzazione degli impianti rinnovabili.
Il MiC per conto delle soprintendenze ha infatti per anni impugnato i provvedimenti autorizzativi regionali (PAUR) davanti alla Presidenza del Consiglio di fatto bloccando decine e decine di impianti pronti a partire perché giudicati utili, ambientalmente compatibili e tecnicamente idonei. L’iniziativa delle Soprintendenze di esprimere parere negativo per ragioni paesaggistiche ha trasceso completamente sia la lettera che la ratio della norma che regola il procedimento di opposizione per le amministrazioni in dissenso durate la coferenza dei servizi (art. 14-quinquies della Legge 241/90 come modificata dal D.Lgs. 127/2016 – Legge Madia), visto che sempre più frequentemente non sussistevano, nei terreni interessati dai progetti in fase autorizzativa, reali vincoli archeologici, artistici o paesaggistici. Una recente e importantissima sentenza del Consiglio di Stato (MiC contro Regione Lazio e Limes 1 srl) ha sancito il ruolo ultroneo dei ricorsi degli enti di tutela paesaggistica in assenza di vincoli nei confronti delle rinnovabili, di chi le proponeva e delle regioni che le hanno autorizzate. Oltre a stigmatizzare l’abuso del potere di interdizione da parte delle soprintendenze, il CdS ha riconosciuto in modo inequivocabile – ecco il portato innovativo della sentenza – che “la produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili è un’attività di interesse pubblico che contribuisce anch’essa non solo alla salvaguardia degli interessi ambientali ma, sia pure indirettamente, anche a quella dei valori paesaggistici”. In sostanza soprintendenze e Ministero della Cultura si sono opposti per ragioni paesaggistiche anche in zone non protette da alcun vincolo generando de facto un ostruzionismo che ha prodotto un conflitto fra amministrazioni dello Stato che ha bloccato lo sviluppo delle rinnovabili in Italia, allontanando il Paese dai target globali e continentali e rendendo quindi indispensabili le semplificazioni che Cingolani portò ad inizio giugno in Consiglio dei ministri.
Questo il passato. Mentre il futuro sarà guidato da un procedimento autorizzativo in parte differente da quello attuale anche grazie alle semplificazioni introdotte e in questi giorni attese alla prova della conversione in legge. Tali semplificazioni avranno però effetti concreti non prima di parecchi mesi generando effetti – se funzioneranno – solo nel medio-lungo termine. Tempo che l’Italia non ha.
Oggi, però, Draghi e Cingolani possono scongelare rapidamente i progetti già valutati come ambientalmente compatibili ma fermi a Palazzo Chigi (al DICA – Dipartimento per il coordinamento amministrativo, presso il Segretariato generale della Presidenza del Consiglio dei ministri) anche come messaggio al settore: incoraggiamento agli investitori e segnale alle amministrazioni dell’imminente cambiamento delle regole e dunque di approccio, come il Consiglio di Stato suggerisce nelle ultime sentenze.
R.E.gions2030 ha effettuato un sondaggio fra 20 imprese (partner del progetto ma non solo) e contato almeno 12 impianti congelati al DICA per una potenza nominale complessiva di 757 MW di energia rinnovabile eolica e fotovolaica pronta per essere offerta al sistema.
È presumibile che altri progetti già giudicati utili, ambientalmente compatibili e tecnicamente idonei giacciano a Palazzo Chigi (non è possibile saperlo se non chiedendo a tutti gli sviluppatori vista la carenza di fonti ufficiali) ma anche solo considerando i dodici da noi contati, in un solo Consiglio dei ministri si potrebbe autorizzare la stessa potenza autorizzata in tutto il 2020, cioè 745 MW (175 wind, 570 PV).
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